Pteridium aquilinum L.
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Famiglia Pteridaceae

Nome volgare Felce aquilina

Caratteristiche Pianta perenne, sino a 2 m, con rizoma strisciante.
Ha fusto rizomatoso a crescita sotterranea orizzontale, foglie con lamina a contorno triangolare, 2-3 pennatosette.
Organi riproduttivi contenenti le spore (sporangi), riuniti in masserelle dette sori, disposti ai bordi delle foglie, protetti semplicemente dai bordi fogliari, che si avvolgono su se stessi.

Habitat E’ l’unica specie europea del genere Pteridium, cresce nelle foreste, specialmente nelle radure luminose, ai bordi dei boschi o nei pascoli a substrato umido.

Diffusione Molto diffusa

Foglie1 - Foglie2 - Radice - Spore

 
 
 
Sostanze contenute La felce aquilina contiene una sostanza, la tiaminasi, che distrugge la vitamina B1; contiene anche acido cianidrico e tannini.

Parti velenose della pianta Tutta la pianta

Proprietà Oggi la pianta viene raramente utilizzata come medicinale per curare reumatismi ed alcune disfunzioni digestive.

Nota Specie presente anche in ambienti incolti; si adatta particolarmente a terreni silicei.

Curiosità Le foglie di felce pare allontanino le cimici e i parassiti dall'uomo.

 

Dal libro "Piante velenose" di Appendino- Luciano - Colombo - Gatti. ed. ArabaFenice - Boves

Si dice che i getti primaverili attorcigliati di questa bellissima felce abbiano ispirato lo stipite dei capitelli dei tempi greci ionici (le cui colonne, per inciso, sarebbero ispirate al fusto dell'angelica), ma la felce aquilina può costituire una minaccia potenziale per la salute, soprattutto per il suo carattere invasivo e la tendenza a formare delle vere e proprie praterie. La pianta è infatti considerata un fattore di rischio ambientale, alla stregua delle polveri fine, dell'ozono o degli idrocarburi aromatici policiclici. La felce aquilina contiene un potente cancerogeno, il sesquiterpene ptaquiloside, e sono state fatte delle correlazioni molto preoccupanti fra l'incidenza del tumore allo stomaco ed all'esofago e l'infestazione dell'ambiente da parte di questa felce. A seguito di una proliferazione inattesa e massiva della pianta, alcuni anni fa il Ministero Inglese della Salute consigliò addirittura a chi andava per boschi di mettersi una mascherina da polveri, come quelle che si indossano per proteggersi dall'inquinamento urbano. Lo ptaquiloside è uno dei pochissimi cancerogeni ambientali "diretti", che non richiedono, per così dire, il nostro contributo per diventare tali. Per perdita di una molecola di zucchero, lo ptaquiloside genera un composto dotato di elevatissima "adesività" biologica, capace cioè di attaccarsi a vari componenti cellulari, fra cui il DNA, deformandoli ed in ultima analisi innescando il processo tumorale. Gli agenti cancerogeni ambientali sono generalmente composti di per sé innocui, che vengono trasformati in cancerogeni dal fegato, che, nel tentativo di eliminarli dal nostro organismo, li tossifica per sbaglio.
La velenosità della felce aquilina è nota da tempo, e ben documentata negli animali da reddito. I sintomi sono crisi emorragiche, dovute ad una depressione generalizzata dell'attività del midollo osseo, ed una progressiva perdita della vista, che ha fatto battezzare l'avvelenamento "cecità chiara". Gli animali eliminano lo ptaquiloside per via mammaria, concentrandolo nel latte, che è quindi una delle principali vie di esposizione umana a questo cancerogeno.
Lo ptaquiloside è solo parzialmente degradato durante il processo della pastorizzazione, ma lo è molto di più nel processo di caseificazione, per cui i formaggi non presentano problemi da questo punto di vista. Un problema grave e di difficile soluzione è invece il dilavamento di questo composto da parte della pioggia, che lo trasferisce dalle fronde della pianta, che ne possono contenere fino ad oltre l’1% sul secco, al suolo. Qui il composto permane e si degrada solo lentamente, almeno nei suoli non acidi, e può contaminare le falde acquifere.
L'infestazione da felce aquilina, pur non presentando in Italia la gravità evidenziata in altri Paesi, rappresenta indubbiamente un potenziale rischio per la salute. Assolutamente da evitare è, in ogni caso, la pratica di consumare come verdura le giovani fronde di questa felce, un uso documentato soprattutto in Oriente, ma ricordato anche dal Mattirolo nel suo classico trattato sulle piante eduli italiane.
E proprio per la consolidata abitudine, alcune comunità cinesi residenti in Italia (nel ravennate in particolare) ricercano attivamente nei boschi le fronde di questa felce, nonostante il continuo tentativo da parte della Forestale e dei medici del Centro Antiveleni di Milano di dissuaderli e di impedire loro tale consuetudine alimentare: il problema è emerso nella primavera 2008 ed è tuttora irrisolto (2010).